Pensare ad una società inclusiva, ad una Chiesa inclusiva è già un segno di grande apertura, di voglia di cambiamento e molto si è fatto in questi ultimi anni; eppure, mi sono accorto che non basta. L’inclusione presuppone che l’altro entri a far parte della tua cultura, delle tue abitudini, del tuo modo di vivere e di pensare, ma il rischio che si corre è quello di mortificare, quasi cancellare la ricchezza umana e culturale dell’altro.
Per questo credo che sia più opportuno iniziare a pensare a un approccio fondato sulla reciprocità perché permette di mettere insieme due ricchezze culturali, tradizionali, storiche facendo crescere entrambi. Per questo nutro stima e ammirazione per le persone che sanno aprire spiragli di luce animati da vera carità. Sono le persone “corali”, che salvano le ricchezze delle differenze in uno stesso cammino. Sono persone che creano relazioni, e assumono atteggiamenti accoglienti che sono alla base delle relazioni. Persone così fanno crescere comunità locali trasformative. Fanno progetti per liberare le persone, abbattono barriere e favoriscono il confronto delle diversità.
Il “popolo Caritas” da sempre crea movimenti anticipativi stando sulle frontiere dell’umano e profeticamente anticipa un altro modello di vita. Per questo la Caritas non può essere vista solo come erogazione di servizi, ma la testimonianza di un modo di vivere e di stare nella società.