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“Il Signore Gesù apparve agli Undici, mentre erano a tavola, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risorto. E disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato” (Mc 16, 14b-16).
Le parole di Gesù sono quanto mai chiare; esse ci aprono agli orizzonti dell’annuncio del Signore e del suo Vangelo al mondo. In queste parole è riassunto il tema della missione che, prima di essere missione della Chiesa, è missione di Gesù. La missione della Chiesa non può esistere senza la missione di Gesù, al di fuori della missione di Gesù. La sua incarnazione, la sua venuta nel mondo è un atto di amore immenso: l’amore di Dio nei confronti di tutta l’umanità. La Chiesa deve perciò fare sue le motivazioni profonde che giustificano la missione stessa di Gesù. Non è possibile fermarsi all’esteriorità; occorre invece tornare alle origini, all’amore di Dio; occorre farsi carico della misericordia, della passione, della dedizione, proprie della venuta del Figlio di Dio nel mondo, il Signore Gesù, che per noi e per la salvezza dell’intera umanità ha offerto la sua stessa vita in riscatto del peccato del mondo.

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“Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi” (1Cor 3,16-17).
Siamo “campo di Dio”, “edificio di Dio”, “tempio di Dio”, come ci ricorda San Paolo. Questa solennità della Dedicazione è l’occasione per comprendere che la Chiesa è costruita sul “fondamento … che già vi si trova, che è Gesù Cristo”. Non c’è fondamento diverso da Cristo; senza di Lui non esisterebbe la Chiesa. Gesù Cristo l’ha costituita chiamando a sé gli apostoli. Questa solennità è anche un richiamo ad interrogarci sul nostro posto nella Chiesa. Siamo infatti chiamati ad essere ogni giorno Chiesa di Cristo con la nostra fede in Lui, con il nostro amore per gli altri, con la nostra speranza in un futuro di vita. Essere cristiani, essere Chiesa, comunità di coloro che credono in Gesù Cristo, non è possibile senza di Lui.

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“In quel tempo. Il Signore Gesù espose ai suoi discepoli un'altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò»” (Mt 13, 24-25).
La parabola del buon seme e della zizzania ci parla del regno di Dio, che non si impone con violenza, ma si diffonde liberamente; non annienta le opposizioni, ma coesiste, lottando contro le forze del male, rappresentate dalla zizzania. Vediamo qui all’opera la pazienza di Dio, che fa risaltare l’impazienza delle persone, nella parabola rappresentate dai servi, che vorrebbero porre mano subito all’eliminazione della zizania. Dio invece lascia crescere insieme seme buono e zizzania. Questo è lo stile di Dio e così deve essere lo stile del cristiano. La pazienza di Dio ci deve perciò insegnare ad evitare di essere impazienti con Lui, quasi che la nostra preghiera sia una questione di dare e avere. La pazienza di Dio ci deve insegnare anche ad essere pazienti verso noi stessi e a vivere il nostro rapporto con gli altri vedendo in essi, più che i difetti, ogni più piccolo segno di bene.

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«Il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: "Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?". Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi» (Mt 20, 13-16).
La parabola chiede di metterci nella prospettiva di Dio. La spiegazione del modo di agire del padrone sta nel suo voler essere “buono”. Ricordiamo quanto Gesù ha detto un giorno ad un giovane che lo aveva interrogato: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono se non Dio solo” (Mc 10,18). Occorre perciò scrutare bene il cuore di Dio, che è buono, per capire meglio la sua misericordia. Perciò il comportamento di Dio, descritto dal comportamento del padrone nella parabola, non manifesta un atteggiamento arbitrario, ma è il gesto di chi è animato dalla bontà, di chi è generoso, di chi è pieno di sensibilità per gli altri.

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Gesù chiese al dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così» (Lc 10, 36-37).
La parabola del buon Samaritano scorre tra due domande. La prima è quella del dottore della Legge: “Chi è mio prossimo?”, cioè fin dove arriva il comandamento dell’amore, come posso soddisfare questo precetto?, quando posso sentirmi a posto di fronte a Dio per quello che faccio per gli altri? La seconda domanda, al termine della parabola, è quella di Gesù, il quale rovescia la domanda che gli era stata fatta: Non più “Chi è il mio prossimo”, ma “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Non è sapendo chi ci è prossimo che si vive la virtù della carità, ma facendoci prossimo all’altro, sempre.